Plastiche biodegradabili, compostabili, EN 13432

Un po' di chiarezza sulle plastiche biodegradabili




Le bioplastiche sono uno degli argomenti più interessanti in fatto di sostenibilità ambientale dei prodotti. Hanno un potenziale di diffusione enorme, vista l'onnipresenza della plastica tradizionale nel packaging di oggi e vista la sgradevolissima tendenza all'overpackaging che si è diffusa da qualche anno.

Negli ultimi mesi, però, parallelamente alla diffusione dell'"argomento bioplastiche" (dovuta alla travagliata approvazione del decreto sugli "shopperini") si è fatta strada anche la "polemica bioplastiche" e si è fatto un gran parlare della biodegradabilità della plastica, specialmente di quella dei famosi "shopperini". Cioè le buste della spesa che prendiamo al supermercato o in bottega quando facciamo la spesa.

Pochi giorni fa, a Milano, si è tenuto il secondo Congresso sul packaging con polimeri biodegradabili. Occasione d'oro per discutere proprio di questi argomenti. Tra i relatori c'era anche Francesco Degli Innocenti, biologo con un passato da ricercatore in Italia e Germania e da parecchi anni responsabile Ecologia dei Prodotti e Comunicazione Ambientale di Novamont.

Cioè di quella che oggi è la maggiore industria italiana dei biopolimeri, che poi vengono usati per produrre una buona parte dei sacchetti biodegradabili che troviamo nei negozi.


L'intervento di Degli Innocenti al congresso milanese verteva sul ruolo della standardizzazione nel campo dei materiali biodegradabili. Che è proprio il punto da cui si deve partire per capire la polemica italiana sugli shopperini e, per questo, ho deciso di intervistarlo e di pubblicare una sintesi della nostra conversazione. Tutto il resto lo trovate nel video.


1) Su quale "equivoco tecnico" è nata la polemica bioplastiche e, soprattutto, come sarebbero andate le cose con un quadro normativo italiano più chiaro?

A mio parere il quadro normativo è stato sempre chiaro. Forse poco conosciuto, ma chiaro. Per questo, quando sono stato invitato al Congresso BioPolPack 2012 ho pensato di tornare sul tema dell’impianto normativo europeo e sugli standard, perché avverto una grande necessità di informazione.Il problema attuale non riguarda tanto la mancanza di un quadro normativo, quanto le distorsioni presenti sul mercato e la comunicazione disinvolta, che crea confusione tra i consumatori. 
Le faccio un esempio a mio parere eclatante. Alcuni sacchi di plastica presenti sul mercato in Italia hanno stampato in modo evidente il termine “biodegradabile”. Tuttavia, se il consumatore è attento, trova spesso, più in basso ed in piccolo, un avvertimento che dice che il sacco non deve essere smaltito con i rifiuti umidi, ossia con il rifiuto organico, ma deve essere riciclato con la plastica.

Questo è chiaramente un messaggio contradditorio che merita una riflessione. Infatti, se il sacco deve essere raccolto con la plastica, ossia deve essere recuperato mediante “riciclaggio meccanico” per dare origine ad altra plastica, allora dovrebbe avere in grande la dicitura “Riciclabile” e non “Biodegradabile”. Se invece viene identificato come “Biodegradabile” allora sotto dovrebbe casomai riportare, per maggior chiarezza, “da recuperare mediante riciclaggio organico”. Inoltre dovrebbe essere conforme allo standard UNI EN 13432.

Indicare che un imballaggio è biodegradabile e poi avvertire: “attenzione: non recuperatelo mediante riciclo organico ma bensì mediante il riciclo della plastica” è paradossale dal punto di vista logico. Inoltre è in contrasto con l’impianto normativo europeo. Infine è forse comunicazione ingannevole per il consumatore e per i cittadini. Ma questo lo lascio giudicare ad altri, perché esce dal mio campo di azione.

2) La direttiva europea che l'Italia ha recepito per certi versi è abbastanza elastica, sia nel ruolo degli Stati membri e della Ue sia negli stessi standard da seguire. Parliamo sempre del famoso EN 13432, ma ce ne sono anche altri?

Non mi pare elastica. Forse c’è il desiderio di renderla elastica….Diciamo che, in Italia, il “Nuovo Approccio” alla creazione delle direttive europee e alla armonizzazione tecnica è un meccanismo conosciuto da pochi e in questa ignoranza (intendo ignoranza tecnica) nascono le interpretazioni più disparate.

Per ricapitolare. I sacchi per la spesa sono degli imballaggi e, come tali, cadono sotto la giurisdizione di questa importante Direttiva europea che, ormai dal lontano 1994, ha chiarito come trattare i rifiuti di imballaggio in Europa. E’ la direttiva 62 del ’94. Ovviamente vige anche in Italia dove è stata implementata prima con la legge “Ronchi” ed oggi con il decreto 152 del 2006.

Ogni imballaggio deve poter essere recuperabile almeno in un modo. Questo chiede, tra altre cose, la direttiva. Ossia: mediante riciclaggio, oppure mediante incenerimento con recupero di energia, oppure mediante riciclaggio organico. Esistono degli standard europei armonizzati (adottati in Italia dall’UNI, ente di standardizzazione nazionale) che definiscono i requisiti che devono avere gli imballaggi per poter essere recuperati nelle varie forme.

Ad esempio lo standard UNI EN 13431 (“Requisiti per imballaggi recuperabili sotto forma di recupero energetico compresa la specifica del potere calorico inferiore minimo”) definisce le caratteristiche termodinamiche che permettono l’incenerimento del rifiuto di imballaggio con recupero energetico. In modo analogo lo standard UNI EN 13432 definisce le caratteristiche di biodegradazione che permettono il compostaggio e la digestione anaerobica.

3) Quali sono i requisiti di biodegradabilità, disintegrabilità e assenza di sostanze ecotossiche nelle bioplastiche previsti dallo standard EN13432?

La biodegradazione è un termine che si usa in ecologia per indicare i processi di decomposizione che riconducono le sostanze allo stato “inorganico”. Ossia è un ritorno della sostanza organica allo stato minerale, un ritorno alla natura non vivente, mediante ossidazione ad anidride carbonica ed acqua. Sono le stesse sostanze che poi le piante usano per fare la fotosintesi e far ripartire il “ciclo”. Con la fotosintesi si forma materia organica a partire da materia inorganica e con la biodegradazione si ottiene il processo inverso.

E’ il concetto, ben conosciuto dall’umanità di “polvere sei e polvere ritornerai”….

Gli imballaggi biodegradabili e compostabili devono mostrare una biodegradazione pari al 90% in meno di sei mesi. E’ un alto livello di biodegradazione e dimostra che la sostanza in esame è veramente biodegradabile.

Per essere sicuri che non si formino sostanze tossiche durante questo processo, il compost finale, dove è stato fatto degradare anche l’imballaggio in studio, viene sottoposto ad un test eco-tossicologico in cui si misura gli eventuali effetti sulla crescita delle piante.

Infine deve essere dimostrata anche la disintegrazione, che è la manifestazione visiva della biodegradazione; significa la riduzione della plastica in frammenti alla fine di un ciclo di compostaggio ed è un processo necessario per ottenere un compost privo di contaminanti visivi in un tempo utile all’utilizzo del compost per scopi commerciali.

4) Di cosa è fatta una bioplastica EN 13432? E' di origine vegetale, ha percentuali anche piccole di polimeri fossili (cioè derivanti dagli idrocarburi come le plastiche tradizionali)?

In realtà lo standard non specifica come deve essere fatto il materiale. Specifica la performance finale del materiale. In questo caso è una performance ambientale. Per fare un esempio è come chiedere di avere in una casa degli infissi a bassa dispersione termica. Non importa se sono fatti di alluminio, o di legno o di PVC. L’importante è che dimostrino di non condurre il calore entro certi limiti, ossia di rispettare un certo standard. Lo stesso vale per lo standard EN 13432 che si applica a qualunque tipo di materiale, anche alla carta e ai materiali lignocellulosici.

Per quanto riguarda la natura dei materiali biodegradabili, occorre aprire una parentesi. L’origine (rinnovabile o da fonte petrolifera) non incide necessariamente sulla biodegradabilità. Anzi, uno dei primi polimeri biodegradabili entrato in commercio (fin dagli anni ’70) è stato il policaprolattone, biodegradabile molto velocemente, ma fossile al 100%.

D’altra parte, esistono polimeri fatti da sostanze naturali che sono non-biodegradabili al 100%...non vorrei confondere i suoi lettori, ma la realtà è sempre più complicata di come uno se la rappresenta. La Novamont usa monomeri sia di origine naturale che di origine fossile. Infatti alcune sostanze necessarie per produrre il polimero e per ottenere delle proprietà meccaniche adeguate non sono ancora disponibili da fonte naturale. Non sono prodotte industrialmente.

Per questo motivo, ormai da qualche anno, la Novamont è molto impegnata nella realizzazione della cosiddetta bioraffineria. Lo scopo di questo progetto è quello di arrivare a sintetizzare tutti i componenti necessari da fonte naturale. L’obiettivo è di passare dal 30-60% al 70-90% per arrivare al 100%. Ripeto però: la biodegradabilità totale è garantita. 

5) Abbiamo capito che la vera plastica biodegradabile è quella che è anche compostabile...

Questo è vero nel settore degli imballaggi. Quindi dei sacchi per la spesa. Nell’ambito della Direttiva Imballaggi il significato di "biodegradabile" è univoco. Si riferisce ad una qualità che permette il recupero dei rifiuti di imballaggio mediante riciclaggio organico (compostaggio e digestione anaerobica). 
Altre opzioni non sono codificate, riconosciute, standardizzate. La discarica controllata o, addirittura, abusiva, non fa parte dell’impianto europeo che regola gli imballaggi. La politica europea sugli imballaggi si fonda sulla promozione del recupero dei rifiuti di imballaggio con una gerarchia che mette in primo piano la prevenzione, quindi il riuso, poi il riciclaggio (meccanico oppure organico) infine il recupero energetico. 
La discarica non è una opzione. La discarica abusiva meno che mai. In entrambi i casi non si recupera, ma si abbandona….

6) Però secondo alcuni l’imballaggio “biodegradabile” è differente da quello “compostabile”. Il secondo è regolato dallo standard EN 13432, mentre per il primo c’è un vuoto normativo, da colmare

Chi intende definire la biodegradabilità come caratteristica utile quando l’imballaggio non viene recuperato ma abbandonato in modo incivile direttamente nell’ambiente naturale o antropico sta facendo una operazione spericolata, almeno per tre motivi: 
a)L’operazione va in rotta di collisione con la politica europea che si è consolidata negli ultimi decenni creando contraddizioni e interferenze con politiche e metodologie consolidate. Il prodotto biodegradabile, nella logica europea, è destinato a migliorare la qualità della raccolta differenziata del rifiuto umido. Alternative “fai-da-te” non sono previste e possono causare gravi danni. Se un prodotto “biodegradabile” di tipo alternativo (primo cioè delle performance richieste) viene indirizzato al riciclaggio organico provocherà un danno economico, ambientale e sociale al riciclaggio organico. Ed il riciclaggio è l’asse portante della politica europea. 
b) Pubblicizzare un prodotto come “biodegradabile” nell’ambiente in caso di rilascio incontrollato, rischia concretamente di far aumentare il fenomeno della discarica abusiva, inducendo comportamenti asociali, che verrebbero giustificati dal supposto minore impatto ambientale del gesto. Questo ovviamente porta un carico sull’ambiente insostenibile. 
c) La promozione del concetto di biodegradabilità separato dal riciclaggio organico si concretizza, per quanto ho potuto vedere e sentire, nella promozione di una categoria di materiali basati su polimeri fossili tradizionali (polietilene, principalmente) addizionati con sostanze che promuovono la degradazione. 
In altri termini, l’attenzione si concentra su una classe di materiali che, a detta dei produttori e dei sostenitori, potrebbero risolvere molti problemi ambientali se solo fossero svincolati dalle rigide norme europee. 
E’ ossia in atto una azione di promozione “ad productum” (…invece che “ad personam”, se mi permette un gioco di parole…) sovvertendo l’approccio con cui è stata costruita la EN 13432 e con cui vengono fatte tutte le norme ambientali. Le norme ambientali partono dalla caratterizzazione del problema ambientale che si vuole risolvere, dalla definizione delle “performance ambientali” attese, dalla individuazione delle metodologie di prova e dei criteri di qualificazione. 
La EN 13432 è stata fatta in questo modo e infatti è adatta a qualsiasi imballaggio, di qualsiasi natura (per esempio la carta ed i lignocellulosici). Non è uno standard fatto per qualificare solo dei materiali specifici…il focus non è il materiale, ma l’ambiente ed il processo. Il concetto non è astruso, credo, e si applica a molti campi.

7) C'è però una bella differenza tra il compostaggio domestico e quello industriale, quello dei grandi centri comunali o provinciali a valle della raccolta differenziata...

Il compostaggio domestico è un processo differente dal compostaggio industriale. C’è chi addirittura non lo considera un vero e proprio compostaggio perché non si raggiungono le alte temperature necessarie per effettuare la “pastorizzazione” ossia l’igienizzazione della materia e la distruzione dei batteri patogeni e fitopatogeni.  
E’ chiaramente una opzione comoda per chi ha un giardino. Forse però è una tecnologia più adatta per trattare l’erba, le potature ecc. che non i residui di cucina, che peraltro attirano animali. Forse per i rifiuti di cucina il compostaggio industriale è la soluzione preferibile. Lo standard EN 13432 in modo esplicito non copre il compostaggio domestico.  
Perché? Per le condizioni estremamente variabili (ognuno se lo gestisce come crede, è una attività quasi hobbistica), per le basse temperature, per l’alimentazione discontinua. In pratica standard EN 13432 non fornisce garanzie sufficienti ad assicurare una degradazione veloce e soddisfacente per il cittadino in queste condizioni incerte.  
Questo non vuol dire che il sacco EN 13432 non si degrada in compostaggio domestico. Semplicemente non vi è lo stesso grado di confidenza che c’è in un impianto di compostaggio gestito da professionisti. I tempi possono essere molto più lunghi.

8) Ribadiamo, allora, alcune buone pratiche per il normale consumatore. Da quali loghi ci devono essere sui sacchetti a cosa si deve fare, arrivati a casa, con il sacchetto compostabile...

Credo che il riferimento alla EN 13432 sia il cuore del problema. Perché collega il prodotto all’impianto normativo in modo chiaro e trasparente. Poi esistono i loghi dei certificatori, ossia di enti che controllano che il riferimento alla EN 13432 sia veritiero e costante. In Italia il CIC è ben conosciuto (il logo del consorzio dei compostatori). Esistono però anche certificatori esteri come Vinçotte e DINCertco anche loro attivi nel settore. Infine, se da qualche parte c’è scritto “Biodegradabile, ma non usare nel rifiuto umido”…beh come già detto la cosa si commenta da sola.

9) Oggi si parla di bioplastiche e si pensa subito agli shopper, quali altri prodotti sono già sul mercato o arriveranno a breve e come dovranno essere utilizzati dai consumatori?

I prodotti biodegradabili risultano particolarmente utili quando si trovano, come rifiuti, insieme al rifiuto organico. Quando plastica tradizionale e rifiuti di cucina si trovano insieme il recupero è difficile. 
Non è praticabile il riciclaggio (la plastica è sporca di cibo, e il cibo è contaminato da plastica) e nemmeno il recupero di energia (il rifiuto umido è, appunto, umido, ricco di acqua e questo abbassa il potere calorifico, ovviamente). In questi casi l’uso di plastica biodegradabile rende il rifiuto omogeneo perché anche la plastica, come il cibo, può essere compostato. 
Quindi un rifiuto che apparentemente sembra misto (plastica e cibo) in realtà è omogeneo per quanto riguarda le possibilità di trattaemento e recuperabile mediante riciclaggio organico. Questo apporta un grande beneficio, come dimostrato in studi di LCA. Ad esempio posate, bicchieri, piatti monousi utilizzati nella risotrazione collettiva. Questi oggetti finiscono insieme ai residui di cibo e di cucina. Se compostabili diventano recuperabili. Questa è una applicazione interessante.

Conclusioni

Sperando di aver fatto almeno un po' di chiarezza su cosa siano le bioplastiche, su come e sul perché le si debba utilizzare, è bene ricordare che la normativa italiana attuale contiene in sé un grande compromesso: le plastiche non compostabili non possono essere più utilizzate per i sacchetti della spesa però, allo stesso tempo, le sanzioni per i negozi che ancora vendono sacchetti del vecchio tipo (o quelli con gli additivi) non arriveranno prima del 2013.

Per questo motivo è possibile ancora trovarle in moltissimi negozi: non dovrebbero esserci, ma non ci sarà nessuna multa per il negoziante.

Quando si va a fare la spesa e si mettono i prodotti nel sacchetto (o quando si compra qualunque oggetto in plastica definita biodegradabile) è sempre bene controllare se sia realmente compostabile come previsto dalla EN13432.

E comunque con la compostiera domestica non ci si può aspettare, anche nel caso di plastica EN13432, la stessa velocità di biodegradazione (tipicamente il 90% in sei mesi) prevista in caso di compostaggio industriale.

Il mio personalissimo consiglio, a questo punto, è di preferire alla compostiera il contenitore dell'umido e di conferire anche la plastica EN13432 tramite la raccolta differenziata comunale, in modo da far fare a tale plastica la sua fine migliore: il centro di compostaggio.

Dalla discussione con Francesco Degli Innocenti, infine, ho appreso che almeno un 40% dei componenti chimici della plastica biodegradabile e compostabile, anche quella EN13432, è di origine fossile anche se rientra nei parametri legali di biodegradabilità.

1 commenti:

Marina Perotta ha detto...

Bè ma così inizia a annidare i commenti...

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